Numero di Febbraio – Marzo 2016
In questo numero
Speciale Daunia e Nero di Troia, vino diverso, di carattere, tutto da scoprire e apprezzare. Le ricette sono di Giancarlo Polito, cuoco salentino trapiantato in un luogo affascinate dell’Umbria, Montone, dove cucina e paesaggio coccolano i clienti. Ancora vino con un vitigno dimenticato delle Langhe, ora tornato in voga, la nascetta. Tra un viaggio e l’altro siamo stati in Svizzera, a Basilea, città particolarmente invitante e accogliente, e in Sicilia, nella zona del Belìce, affascinante e ricca di tesori nascosti, ma famosa ai più per il terremoto del 1968. Torniamo in Centro Italia, ancora in Umbria per raccontarvi di un antico prodotto tradizionale, le mortadelle di Campotosto, golosità artigianale veramente di nicchia che vale il via io. Torna l’extravergine raccontato nelle pagine dedicate a un’eccellenza italiana, il Frantoio Franti di Mon-tenero D’Orda. Non manca la birra artigianale italiana, siamo andati a Grottaminarda al Birrificio VentiTRe..
EDITORIALE
Siamo ormai abituati ai vini varietali, ai Merlot, Sauvignon, Cabemet Sauvignon, Chardonnay e compagnia – i cosiddetti internazionali insomma -, senza certificazione d’origine, magari millesimati, realizzabili ovunque e da oltre cinque anni accettati e previsti dalla legislazione europea; sono le uve che la Francia ha esportato in tutto il mondo e che in qualche modo hanno dato il loro contributo a fare la fortuna dei vini francesi a denominazione di origine che ne fanno uso da sempre.
Sono nomi che non compaiono nelleAppellation francesi più famose, che appunto si basano su toponimi. Esportare questi vitigni e consentire a qualunque vino di usarne il nome ha contribuito enormemente a mitizzare le straordinarie Doc francesi che erano e sono il modello irraggiungibile da imitare, anche se esistono da anni vini di pari valore, talvolta superiori, in altri luoghi del mondo. Noi italiani sin dall’inizio abbiamo anche puntato sul nome del vitigno collocandolo in un territorio: Lambrusco di Sorbara e compagnia, Verdicchio dei Castelli di Jesi e Verdicchio di Matelica, Sangiovese di Romagna, e ancora Barbera, Nebbiolo, Moscato, Erbaluce… una litania di denominazioni che abbiamo pensato, codificato, consolidato in decine di anni di lavoro, di tradizione, di cultura e di umanità, sostenute da radici secolari. Sono protette da una legge europea che tutela queste nostre particolari unicità territoriali che hanno voluto integrare nella denominazione il nome del mezzo, l’uva.
La verità è che tali protezioni si basano su regolamenti comunitari, legiferati dal parlamento europeo e poi interpretati dalla commissione europea, il braccio esecutivo. Qualcuno in Europa, in commissione agricoltura recentemente si è chiesto se non fosse il caso di allargare la lista dei vini varietali a qualsiasi vitigno, cosa logica da un certo punto di vista, ma pericolosa perché il consumatore potrebbe essere ingannato, potrebbe per esempio trovarsi a comprare un Lambrusco fatto in Romania o Spagna pensando che si tratti di un prodotto italiano.
Questo genere di tutela è oggi centrale nella strategia europea e la “bozza di atto delegato per la liberalizzazione dell’uso del nome dei vitigni”- come si chiamano i decreti attuativi della Commissione – al momento è stata ritirata grazie alla pronta reazione dell’Italia che ha chiesto con fermezza la protezione delle proprie produzioni territoriali, portando a casa il risultato.
Era obbligatorio ottenerlo, ma è lecito chiedersi se i nostri vini debbano continuare a mantenere questi nomi composti invece di focalizzare lentamente unicamente sui toponimi. Ci sono mille ragioni intuitive che lo suggeriscono e poi ce n’è una di carattere strategico. Immaginate se cominciasse a diffondersi nel pianeta la coltura del verdicchio; fino a oggi il nostro Verdicchio dei Castelli di Jesi ha portato la bandiera italiana nel mondo, ma senza esportare uva. Se ci fosse un Verdicchio fatto in Bulgaria, uno in Inghilterra o in Spagna e se poi si diffondesse in Paesi extracomunitari, fino all’altro capo del mondo, i nostri di Jesi e Matelica essendo gli originali non potrebbero che beneficiare della diffusione di un mercato di Verdicchio “comune”, riuscendo anche a spuntare prezzi migliori. Ma è una scelta strategica che va effettuata nei territori del vino owero dai produttori di comune accordo; intanto le nostre istituzioni devono difendere le nostre tradizioni da attacchi speculativi.
Dietro questo episodio si nasconde una continua attività di negoziazione necessaria anzi obbligatoria per proteggere le nostre eccellenze in tutti i campi, a redite da chi vede la copia come pura opportunità di business alle spese del consumatore, assaltate da chi vuole entrare nel mercato usando scorciatoie. Giova ricordare che le nostre denominazioni valgono oltre tredici miliardi di euro e rappresentano più del 10% dell’intero fatturato alimentare. Un altro esempio di attività di difesa è quello che si sta consumando in questi giorni: la richiesta (a inizio dicembre 2015) di attribuzione di Dop da parte della Danimarca di un zona geografica che utilizza vitigni ibridi, oggi non previsti in tutte le denominazioni protette europee: se la Commissione Europea accettasse una tale protezione di origine, non legata alla tradizione ma agli sviluppi tecnologici, sarebbero messe in discussione le radici culturali del continente che, guarda caso, sono legate in modo stretto alla nostra storia. Ovviamente le nostre istituzioni si stanno opponendo in accordo ai regolamenti europei. Insomma bisogna tenere alta la guardia.
Buona lettura.