L’aglio rosso di Proceno
Particolarmente intenso e leggermente piccante, l'Aglio di Proceno è amato dagli intenditori

Piccolo borgo medievale situato all’estremo nord della provincia di Viterbo, prossimo ai confini con la Toscana, Proceno è posto su un colle di altitudine poco superiore ai quattrocento metri, ma capace di offrire un panorama che va dal monte Amiata e da Radicofani, sino alla valle del Paglia. Alcuni fanno risalire la sua nascita al periodo etrusco e, come leggenda vuole, a Porsenna. Si narra che durante una battuta di caccia in questi luoghi, Porsenna, allora lucumone di Chiusi, decise di trascorre la notte in quei boschi prima di riprendere la via per la sua città. Durante la meditazione fu attaccato da un cinghiale, dal quale si difese uccidendolo con la sua spada. Attribuì la salvezza dall’animale inferocito alla sua dea protettrice, Uni, e per riconoscenza in quel punto volle far edificare una città a lei dedicata. Ad avallare la teoria della nascita di Proceno nel periodo etrusco ci sono i vari reperti archeologici ritrovati nella zona.
Paese prevalentemente agricolo, questo piccolo borgo è rinomato per due suoi prodotti della terra: le patate dell’Alto Viterbese Igp e il suo gustoso aglio rosso. L’aglio (allium sativum L. appartenente alla famiglia delle liliaceae) è una pianta conosciuta sin dai tempi antichi, in special modo per le sue proprietà medicamentose, sì che già gli Egizi ne facevano uso nel terzo millennio avanti Cristo. La prima traccia del suo utilizzo in farmacopea risale al codice Ebers, nome derivante dal suo acquirente europeo, un papiro medico egizio del 1550 a.C., nel quale si magnificano ben ventidue diverse preparazioni, tra queste anche una fonte di energia. È per questo che era largamente diffuso come cibo per gli schiavi. Oggi è utilizzato principalmente come ingrediente aromatico in tante preparazioni culinarie. Ultimamente si tende a evitarlo, in alcuni casi si arriva a demonizzarlo; per i suoi “effetti collaterali” i Greci lo definivano “rosa fetida”, rinunciando così al suo gusto e alle sue proprietà benefiche, quando in realtà basterebbe non ingerirlo o masticare del prezzemolo oppure un chicco di caffè. La varietà coltivata a Proceno ha un aroma particolarmente intenso e ha gusto leggermente piccante, caratteristiche che lo fanno apprezzare dagli intenditori.
La varietà è stata selezionata nel corso degli anni dagli agricoltori che lo producono e che dal nuovo raccolto ricavano il seme per la stagione successiva, potrebbe quindi ambire alla Dop. “Per me è stato naturale proseguire questa attività iniziata già dai miei genitori – ci dice Marcella Santoni, titolare dell’azienda agricola La Treccia – anche perché mi piace e lo faccio con passione”. E lo dimostra la luce che ha negli occhi, accompagnata da un largo sorriso, quando ci raccontale lunghe e dure fasi della produzione: “Si inizia con il dissodare il terreno, poi si passa alla semina, che inizia nel mese di novembre, in alcuni casi è svolta a mano, noi abbiamo adattato una macchina utilizzata perla semina delle patate. La distanza tra una fila e l’altra va dai trenta ai cinquanta centimetri, mentre quella tra seme e seme è di circa tredici – quindici centimetri”. L’aglio rosso di Proceno è stato inserito dal ministero nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tipici (dodicesima revisione di giugno 2012), non essendo quindi un prodotto a denominazione non ha un vero e proprio disciplinare, esistono però delle linee guida dettate dalla Comunità Montana Alta Tuscia Laziale, che lo riconosce come prodotto tipico della zona. I semi, i bulbilli che compongono il bulbo, sono inseriti nel terreno con l’apice rivolto verso l’alto. “Il periodo di semina – riprende la signora Marcella – può durare alcuni mesi e arrivare fino a febbraio, in special modo se l’annata è piovosa, cosa che rende il terreno argilloso difficile da lavorare”. L’acqua rende l’argilla un impasto melmoso, che appena asciuga solidifica indurendosi come pietra. “Il primo anno che decidemmo di incrementare la produzione fino a quella attuale, circa due ettari, piovve di frequente e dovemmo piantare quasi tutto a mano, praticando la sede di ogni seme con un bastone. Finimmo a febbraio con molta difficoltà”.
Per chi fosse curioso di sapere quanti buchi hanno dovuto fare a mano, gli basterà dividere la superficie (ventimila metri quadrati) per il prodotto della distanza tra le file (cinquanta centimetri) moltiplicato la distanza tra semi (tredici centimetri): un’infinità! “A maggio – prosegue – si pratica la starlatura. In quel periodo la pianta produce un filamento nella parte centrale, l’inizio dell’infiorescenza. Per far sì che la pianta non disperda energie nella produzione del fiore a scapito del bulbo, questi filamenti devono essere tolti manualmente. Se raccolti dopo pochi giorni dalla loro comparsa possono essere consumati come una comune verdura fresca, oppure conservati sottolio. La starlatura dura circa venti giorni, perché non tutte le piante sviluppano questo filamento nello stesso periodo, ma occorrono quattro o cinque passaggi per portare a compimento l’operazione”. Questi scapi fiorali lunghi circa quindici centimetri denominati “talli”, o tarli (di lì starlatura) come comunemente vengono chiamati in zona, una volta bolliti in acqua acidulata e poi messi sottolio con diverse spezie aromatiche, diventano un gustoso contorno o uno sfizioso antipasto dal vago sapore agliaceo.

“Tra la fine di giugno e i primi di luglio – prosegue il racconto Marcella Santoni – inizia la raccolta, nel frattempo non ci si può riposare, poiché bisogna rimuovere le infestanti, una pratica che per buona parte si svolge manualmente. Dall’inizio di marzo, fino al momento di raccogliere, inizia il diserbo, che tra le file possiamo fare con una motozappa, mentre tra le piante, vista l’esiguità dello spazio, c’è necessità di farlo a mano, con una zappa, facendo molta attenzione a non rovinare i bulbi”. È arrivato finalmente il momento del raccolto. “Sul campo formiamo dei mazzi di piante – il racconto continua – che lasciamo ad asciugare non meno di cinque o sei giorni. Le piante sono poste poi su delle pedane, al riparo da eventuali intemperie, a completare l’asciugatura per circa una settimana. Poi, per poter comporre le trecce, c’è necessità di vaporizzare con acqua la parte apicale della pianta, in questo modo diventa più duttile e facile da lavorare. Per la nostra produzione il periodo dell’intrecciamento dura circa due mesi”. Siamo giunti così a settembre, il momento del meritato riposo. “Purtroppo no – sottolinea la signora Marcella – bisogna pensare alla nuova produzione, quindi alla scelta dei bulbi migliori appena raccolti e alla separazione dei bulbilli che tra non molto dovranno essere piantati”. Il ciclo riprende!